Le due Bari di Pasolini, breve racconto del 1951

Interessante è capire come la città di Bari venga percepita da chi barese non è e da visitatore si appresta avventuriero e curioso a farsi travolgere dall’atmosfera nostrana. Oggi, a Bari, il turismo è in crescita, grazie alla ricchezza artistica e culturale consolidatasi nei secoli di storia, ancora tangibile tra i vicoli di Barivecchia e gli edifici della Bari nuova, fusasi alle comodità della modernità metropolitana, riconosciuta a livello mondiale, ieri, dovuto soprattutto al culto cristiano di San Nicola con i suoi pellegrini.

E tra le testimonianze di sacro e profano contenute negli archivi storici che parlano della città, particolare è un breve racconto del Novecento firmato dalla penna dello scrittore, giornalista, regista e pittore, artista a tutto tondo, creatura estetica, per certi versi sopra le righe, il friulano Pier Paolo Pasolini, morto in un incidente doloso ad Ostia nel 1975, all’apice della sua carriera e che venticinque anni prima, nel 1951, a ventinove anni, prima del successo del suo romanzo Ragazzi di vita (1955), probabilmente da Roma, dove si sarebbe avvicinato al cinema o da Bologna, dove si laureò in Lettere, prese un treno che lo portò alla Stazione Centrale di Bari.

Pier Paolo Pasolini

Bari, negli anni Cinquanta, rinasceva dalla seconda guerra mondiale velocemente, nonostante l’esito bellico, la fame e la povertà, grazie alla posizione periferica rispetto ai bombardamenti (eppure ne subì due, violentissimi, nel Porto di Bari) e grazie all’intervento delle truppe alleate sbarcate. In quegli anni in cui si lanciavano le basi del boom economico, a Bari, le principali vie del centro cittadino già pullulavano di baresi affacendati nelle “compere” (come si diceva un tempo al posto dello “shopping”), illuminati dalle insegne colorate dei negozi, posti l’uno dopo l’altro: macellerie, farmacie, drogherie, bar aperti sino alle 10 della sera contribuivano ad una vitalità dai cenni propositivi.

Tornando all’esperienza di Pasolini, l’intento dello scrittore era quello di registrare una guida del Sud Italia (“Le Puglie per un viaggiatore incantato”), opera che però restò incompiuta, riuscendo solo a raccontare di Caserta, Alberobello e Bari, poi pubblicate sulle riviste Il Quotidiano e Il Popolo di Roma nel 1951.

Le poche, ma preziose pagine che raccontano della città di Bari prendono il titolo de Le due Bari in cui Pasolini, in una sola notte passata presso una camera in affitto, in un appartamento, nei pressi della Stazione Centrale dei treni, dopo aver perso il taxi per l’Albergo delle Nazioni, con esemplarità tra incanto e realismo riesce a sondare quel doppio nell’identità barese: stregata e inquietante di notte, luminosa e fatata di giorno.

In queste suggestioni intrise di verità, Pasolini, nella città di Bari, paragona se stesso a un personaggio dello scrittore Kafka, alieno e solitario, poi , inevitabilmente l’approdo sul lungomare ci mette il suo zampino e dilata lo spazio della percezione e il tempo della riflessione.

Di seguito il testo originale. Buona lettura!

Kafka, ci vuole Kafka. Scendere dal rapido, non potere entrare in città né avanzare di un passo fuori dal viale della stazione, può accadere solo al personaggio di un’avventura kafkiana. Non potevo risolvermi ad andarmene da lì. Tutta la gente scesa con me, un po’ alla volta, si era dispersa, le carrozzelle, arcaiche come piccole torri, erano passate l’una dopo l’altra davanti al marciapiede (un cavallo, anzi, aveva urtato col muso la testa del primo barese, un giovanotto ghignante, minaccioso, nero e snodato) e i ragazzetti delle valigie s’erano dileguati in fondo a quel loro famigliare piazzale, insieme all’uomo che in quei cinque minuti mi aveva ossessionato con l’offerta di una camera.
Davanti a me nelle viscere della Bari sconosciuta, distesa contro il mare, gli autobus passavano radi, internandosi con urla di rapaci dentro vie che non portavano in nessun luogo. Del resto anche l’auto azzurra dell’Albergo delle Nazioni se n’era andata da un pezzo, ed io ero rimasto solo, a tremare, nel piazzale rosso, verde, giallo della stazione: in me lottavano ancora la seduzione dell’avventura e un ultimo residuo di prudenza. Così senza avere deciso nulla, scelsi una strada, una delle tante, piena di scritte luminose e mi incamminai. Dopo un po’ mi parve di essere in un quartiere della Roma piemontese, come i Prati, ma con pietre più consunte e malinconiche, benché forse più nuove, e come levigate da una confidenza ariosa e provinciale; solo in seguito mi sarei accorto di che risonante allegria è piena questa città: in quel momento mi pareva disperazione, sorda disperazione, orgasmo, aria di chiuso con tutti quei salumai, droghieri, farmacisti e macellai aperti alle dieci di sera, e tutta quella luce vuota, sui passanti spinti qua e là in disordine come da un vento di periferia e i gridi dei ragazzi, superstiti nell’alta serata.
Naturalmente non scoprii nulla: nessuna avventura, al povero viaggiatore incantato, che pervenne al Corso chiamato “Càvur” in mezzo alla più desolante indifferenza: in quella Bari appena creata e già tanto adulta. Finii col cercare il più vicino albergo, che com’è giusto non trovai: invece, ritornato nei pressi del kafkiano piazzale, mi riagguantò l’uomo grasso della camera. Ormai ero nelle sue mani, egli trionfava. Mi condusse dentro uno smorto portone e poi per una rampa di scale. La porta dell’appartamento era aperta e nel corridoio stavano cenando, con vergogna, tre persone: dietro di loro c’era un paravento, e dietro il paravento, ammassati, tre lettini bigi. Fui sufficientemente energico, questa volta, nel ribellarmi, ed egli ancora mi condusse in un altro appartamento dove ancora tre persone, un vecchio, una vecchia e una ragazzo – un ragazzo agro e sdegnoso – stavano seduti in silenzio.
Nella mia camera c’era un grande letto matrimoniale, e lì dopo poco dormivo. ma durante il sonno cominciarono ad accadere degli strani fatti. Nella mia camera, con la penombra, era venuto a stabilirsi un uomo di mezza età, probabilmente un ferroviere, munito di un fischio lacerante e forse anche di una specie di semaforo. Ai suoi segnali acustici e luminosi una vecchia locomotiva ruggendo si staccava dalla profondità di un terrapieno, e di scambio in scambio giungeva presso il mio letto: quivi sostava un poco sbuffando, sferragliando, vomitando faville e vapore, poi girava e fischiando come una pazza si allontanava a vagare per lo scalo. Ad un tratto però tutto questo armeggiare fu interrotto da un formidabile rintocco, che rimbombò ronzando nella camera, a pochi centimetri dai miei timpani, lacerandoli: il suo spaventoso ronzio non s’era ancora estinto che un altro squillo lo seguì. Accesi spaventato la luce, mentre i rintocchi si susseguivano implacabili, e dopo un attento esame scoprii che essi provenivano da una sveglia singolarmente piccola, collocata sul comodino. Appena l’ultimo rombo fu dileguato, ripresero le manovre della locomotiva.
Paradisiaca, però, fu la notte in confronto alle operazioni mattutine. Quando mi alzai e chiesi notizie dell’acqua, il grasso barese, del resto molto gentilmente mi mostrò il secchiaio che si trovava in mezzo alla cucina. Mi accostai, ma la vecchia che vi stava armeggiando non si mosse: rimasi in atto di cauta cortesia e una certa distanza da lei per farle comprendere… Ma non si muoveva. Allora le toccai una spalle, ed essa si voltò verso di me, roteando nella luce due enormi occhi ciechi. Si trascinò lontano dal secchiaio, schiacciata sotto la sua gobba ma per tornare subito dopo reggendo faticosamente tra le mani il bianco recipiente della notte, certo con l’intenzione di scaricarlo nel secchiaio dove mi stavo lavando. Ma, urtando contro di me, desistette, posò il recipiente per terra, e andò a vagolare per la casa. I treni continuavano a fischiare, laceranti nell’aria bianca delle otto. Poi il mio uomo, grasso e domestico, venne con un grosso fagotto di biancheria sotto il braccio, la gettò in una tinozza presso il secchiaio e cominciò a fare il bucato… Che freschezza, la mattina a Bari! Alzato il sipario del buio, la città compare in tutta la sua felicità adriatica.
Senti il mare, il mare, in fondo agli incroci perpendicolari delle strade di questa Torino adolescente: un mare generoso, un dono, non sai se di bellezza o di ricchezza. Davanti al lungomare (splendido), sotto l’orizzonte purissimo, una folla di piccole barche piene di ragazzi (i ragazzi baresi alti e biondi, coi calzoni ostinatamente corti sulla coscia rotonda, la pelle intensa, solidi) si lascia dondolare nel tepore della maretta. Nella luce stupita si incrociano i gridi dei giovani pescatori: e senti che sono gridi di soddisfazione, che il mare dietro la rotonda è colmo di pesciolini trepidi e dorati. E mentre il mare fruscia e ribolle, senti dietro di te con che gioia la città riprende a vivere la nuova mattina!
I baresi si divertono a vivere: ci si impegnano col cuore leggero, e col cuore leggero vanno discutendo di affari per le strade, prendono il caffè, si recano al lavoro, senza avere nemmeno il sospetto che questo non rappresenti una piacevole avventura. C’è aria di festa. Nelle grandi strade, che sembrano boulevards o avenidas, senti sospesa l’euforia del progresso di questa città che in pochi anni, rotti i legami che imprigionavano i pugliesi non tutti meridionali a un difficoltoso complesso, ha raggiunto il livello delle città del Nord meno vocate al silenzio. E l’allegria dei baresi è seria, sicura e salubre: su queste teste solide il delicato biondo veneziano dei capelli (che è la carezza dell’Adriatico), perde in languore e acquista in chiarezza. Qui tutto è chiaro: anche la città vecchia, dalla chiesa di San Nicola al castello svevo, pare perennemente pulita e purificata, se non sempre dall’acqua, dalla luce stupenda.”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *