Storie di ordinario abbandono

Miseria e abbandono. Queste due sono le qualificazioni che devono essere attribuite alle periferie baresi. Apriamo gli occhi e lungi da concezioni fantasiose e lontane dalla realtà, è necessario analizzare quello che la periferia oggi è e rappresenta, contrapponendolo a quello che dovrebbe essere.
Purtroppo, nell’immaginario comune il termine “periferia” è sinonimo di miseria, vandalismo e povertà. É considerata fonte di degrado, che il potere pubblico consapevolmente ignora. Ed è questa consapevolezza dell’abbandono da parte dell’amministrazione pubblica che più rattrista, spaventa e lascia una questione aperta: l’abbandono da parte del pubblico quali conseguenze porta?

La miglior risposta ci viene già dalla storia ed in particolare da quelle vicende che portarono alla nascita del brigantaggio dopo l’Unità d’Italia. Nel XIX secolo la triste realtà economico-sociale dell’Italia meridionale e l’estrema secolare miseria della classe contadina furono le ragioni che diedero vita al “brigantaggio”, ovvero quel fenomeno che Giustino Fortunato (politico e storico italiano) definì “movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbruttimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali”. In quegli anni sarebbero occorse immediatamente vere riforme agrarie, opere di bonifica, migliorie, ma nulla fu fatto per debellare l’estrema disperata miseria dei contadini che era alla base del triste fenomeno.
Oggi il brigantaggio è considerato come la storica figura di quel fenomeno che chiamiamo “mafia”, che compare laddove lo Stato (o il Comune) scompare.
Dopo un’analisi di natura storica che getta le basi al fine di formulare un’ipotesi di quello che un altrettanto abbandono delle periferie può portare, è bene soffermarci sulla realtà di oggigiorno.
Disuguaglianza, regresso culturale e intellettuale, ghettizzazione sono tre delle tante problematiche che investono e potrebbero investire i tanti residenti di queste zone cadute nell’oblio o che, addirittura, non si sono mai sollevate nella memoria di alcuno. I residenti appaiono come vittime di un potere pubblico assente, il quale, ignorando a pieno le esigenze di queste zone, è il primo responsabile del degrado, quando invece dovrebbe essere il primo soggetto a  rivestire il ruolo di garante di eguali diritti e del progresso materiale e spirituale dei cittadini. Alla fine dell’800 il giurista Lorenzo Meucci affermò che “La specificità del diritto amministrativo ha la sua ragione nell’interesse a riservare non solo ai presenti, ma alle generazione future l’uso delle cose”, e dunque una amministrazione che persegue l’obiettivo di prendersi cura della periferie non solo getta le fondamenta per il presente, ma è anche il motore che dà impulso e plasma le generazioni successive. 
 
 
Senza un intervento da parte della pubblica amministrazione non è nè ragionevole né scontato affidare ai residenti la responsabilità del degrado o, peggio, considerar loro i colpevoli del mancato sviluppo delle periferie. L’impossibilità di “colpevolizzare” il cittadino è spiegata dalla teoria della finestra rotta formulata dai criminologi Wilson e Kelling, secondo cui condizioni di malessere e degrado o disordine umano divengono vicende abitudinari per i soggetti, tanto da rendere anormale e quasi impensabile la possibilità di essere motivato secondo diritto e quindi di conformarsi alle regole dell’ordinamento giuridico italiano. In altre parole, la teoria afferma che mantenere e controllare ambienti urbani reperimento anche i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi. È, dunque, la necessaria presenza del potere pubblico a garantire l’ordine sociale. Il compito dei residenti e, in generale, dei cittadini è successivo e consiste nel rispettare quanto messo a disposizione dallo stato e “lasciarsi istruire” e rieducare dagli strumenti statali (e comunali). 
 
Pensare che le periferie siano unicamente covo di delinquenza e criminalità significa categorizzare la società e isolare quei soggetti che sono orientati alla commissione di un illecito significa dar vita a veri propri ghetti. Motivo per cui è impensabile sposare l’idea della costruzione di quartieri di case popolari sempre posti al di fuori dell’area urbana “vissuta” e in cui l’amministrazione pubblica tende maggiormente ad investire. 
Pensiamo, invece, quanto l’inclusione dei quartieri popolari possa giovare da una parte ai residenti più svantaggiati che, trovandosi in un quartiere in cui la presenza dello stato non manca, potrebbero usufruire di benefici (sia a livello urbanistico sia sociale), e dall’altra parte investire sullo sviluppo culturale (e non) dei soggetti svantaggiati significa investire nella società intera. Così, in maniera olistica la città tenderebbe verso un sempre più miglioramento. In questo modo, dunque, lamministrazione cessa di essere guardiano notturno; non si chiede solo di garantire l’ordine e la sicurezza, ma si chiede allo stesso tempo di rimediare a quelle situazioni di bisogno non per finalità caritatevoli, ma anche perché quelle situazioni di bisogno costituiscono un ostacolo allo sviluppo economico dell’intera società.

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